Nel 2025, l’Italia si ritrova ancora a dover fare i conti con un divario salariale di genere che, nonostante le numerose iniziative politiche e culturali, mostra segnali di cambiamento troppo lenti. Le più recenti rilevazioni Istat fotografano una realtà in cui la retribuzione oraria media delle donne è di 15,9 euro, contro i 18,3 euro degli uomini. Una differenza che si traduce in un gender pay gap del 13%, che però può superare il 20% in ambiti specifici o in ruoli dirigenziali, come riportato anche da Fortune Italia.
Il problema non è solo quantitativo, ma anche strutturale. Le donne, pur essendo sempre più presenti nei percorsi formativi qualificati e nelle professioni ad alta specializzazione, faticano ad accedere a ruoli apicali. Quando ci riescono, spesso sono retribuite meno dei colleghi uomini, a parità di mansioni e responsabilità. Inoltre, sono maggiormente coinvolte in contratti part-time non sempre scelti, ma imposti da esigenze familiari o da contesti lavorativi poco flessibili.
Fattori culturali e strutturali che alimentano il divario
Il gender pay gap in Italia non si spiega solo con la discriminazione diretta — per quanto ancora presente — ma anche con un insieme di fattori culturali, sociali ed economici. Le donne tendono a interrompere più spesso la carriera per la maternità o per prendersi cura dei familiari, riducendo così le opportunità di crescita professionale e gli scatti retributivi nel tempo.
Inoltre, le aspettative culturali sulle donne nel ruolo di caregiver influiscono profondamente sulle scelte lavorative: dalle carriere intraprese ai settori in cui si concentrano (spesso meno remunerati), fino alla disponibilità ad accettare ruoli meno stabili o con orari flessibili. Anche la scarsa trasparenza salariale nelle aziende contribuisce a mantenere invisibile il problema, rendendo difficile per le lavoratrici sapere se stanno ricevendo una retribuzione equa rispetto ai colleghi.
Verso una maggiore trasparenza: il ruolo della normativa europea e italiana
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha posto al centro dell’agenda politica il tema della trasparenza retributiva come strumento essenziale per ridurre il divario di genere. Il Pay Transparency Directive, adottato nel 2023, obbliga le aziende con oltre 100 dipendenti a rendere pubbliche le informazioni sui salari e a fornire criteri chiari per la determinazione delle retribuzioni.
L’Italia ha recepito la direttiva con misure che spingono le imprese verso la certificazione della parità di genere, uno strumento che attesta l’impegno delle organizzazioni a garantire condizioni di lavoro eque per uomini e donne. Queste certificazioni non solo premiano le imprese virtuose, ma rappresentano un vero e proprio coso per la parità di genere: una leva concreta per incentivare un cambiamento nei modelli organizzativi e culturali del lavoro.
Certificazioni per la parità di genere: cosa sono e perché contano
La certificazione per la parità di genere è un’attestazione volontaria che le imprese possono ottenere dimostrando di adottare politiche retributive trasparenti, eque e prive di discriminazioni. È prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e si inserisce in un più ampio quadro di misure per la parità sostanziale tra i generi.
Le certificazioni non si limitano a verificare i salari, ma prendono in esame anche altri aspetti dell’organizzazione aziendale, tra cui:
- La presenza di donne in posizioni di leadership;
- Le politiche di conciliazione vita-lavoro;
- I percorsi di carriera accessibili equamente;
- La formazione e l’accesso a ruoli strategici.
Tra le principali certificazioni esistenti in Italia troviamo:
- UNI/PdR 125:2022, che fornisce linee guida per implementare un sistema di gestione per la parità di genere all’interno delle organizzazioni;
- La certificazione GEEIS (Gender Equality European & International Standard), di respiro europeo e adottata da grandi gruppi internazionali;
- La certificazione di genere prevista dall’INAIL, che riconosce alle aziende virtuose anche agevolazioni contributive.
Questi strumenti non sono solo simbolici: le imprese che ottengono tali riconoscimenti accedono a premialità fiscali, migliorano la propria reputazione sul mercato del lavoro e aumentano l’engagement dei dipendenti.
Un cambiamento che parte dalle aziende, ma riguarda tutti
Ridurre il gender pay gap non è solo un obiettivo economico, ma una questione di giustizia sociale e sviluppo sostenibile. Quando le donne sono pagate meno, l’intero sistema produttivo perde in efficienza e innovazione. Secondo diversi studi, colmare il divario salariale di genere significherebbe un aumento significativo del PIL nazionale, grazie a una piena valorizzazione del potenziale femminile nel mercato del lavoro.
Le imprese possono e devono fare la propria parte, adottando strumenti di autovalutazione, favorendo una cultura della trasparenza e supportando la leadership femminile, ad esempio, attraverso corsi aziendali sulla parità di genere. Ma anche le istituzioni, i media, le scuole e le famiglie hanno un ruolo nel trasformare le mentalità e abbattere gli stereotipi che alimentano questa disuguaglianza.
Dalla consapevolezza all’azione
Il gender pay gap in Italia non è una novità, ma ciò non lo rende meno urgente. I numeri, anche nel 2025, raccontano una storia di squilibrio che si riflette ogni mese in buste paga più leggere per milioni di donne. Tuttavia, gli strumenti per cambiare rotta ci sono: dalla trasparenza retributiva alle certificazioni per la parità di genere, passando per l’evoluzione normativa europea.
Serve un impegno congiunto, continuo e trasversale. E serve soprattutto la volontà di riconoscere che l’equità salariale non è un favore da concedere, ma un diritto da garantire. Per tutti.