capital gain

Capital Gain su titoli di stato: qual è il loro significato? E la tassazione?

Quando ci si addentra nelle dinamiche economiche e finanziarie, alcuni termini possono, almeno all’inizio, destarci qualche perplessità. Per questo motivo è importante avere la pazienza di approfondire di volta in volta ciò che in un primo momento ci risulta ostico. Spesso questo è il caso del concetto di Capital Gain in relazione ai titoli di Stato. Nelle prossime righe cercheremo quindi di fare chiarezza su questo termine che in italiano si può tradurre con “plusvalenza“.

Cosa si intende per “capital gain”?

Capital Gain è un termine inglese che in italiano, come abbiamo già accennato, è spesso tradotto con “plusvalenza” o “guadagno in conto capitale“. Questo indica, in parole semplici, la differenza (solo se positiva) tra il prezzo di vendita (o il prezzo di rimborso, nel caso degli strumenti finanziari come le obbligazioni, le azioni, i warrants, le opzioni e così via) e il prezzo del titolo al momento dell’acquisto o della sua sottoscrizione.

Ciò significa che ogni volta che si acquista un titolo e si rivende ricavando quindi una differenza di prezzo in positivo si ottiene una plusvalenza, ovvero un “guadagno in conto capitale”. Il capital gain ovviamente si riferisce esclusivamente a questo aspetto del rendimento. Non tiene infatti conto di altre variabili che concorrono al prezzo o al ricavo finale, quali possono essere per esempio i dividendi periodici.

Qual è la differenza tra Capital Gain e Capital Loss?

Come abbiamo visto, la plusvalenza si ottiene quando la differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto iniziale si chiude in positivo. Cosa accade quando però la differenza è in negativo? In questi casi si parla di Capital Loss, tradotto in italiano come minusvalenza. Come si può facilmente intuire, si tratta del rapporto in negativo (ovvero la perdita) nel rapporto tra il prezzo di vendita e quello di acquisto. Anche in questo caso il campo di riferimento è quello degli strumenti finanziari, che possono essere titoli di Stato, obbligazioni, azioni, ma anche valute e derivati. Allo stesso modo della plusvalenza, questo valore non tiene conto degli altri aspetti, quali per esempio gli oneri accessori o gli interessi maturati. Dal punto di vista fiscale, in alcuni casi la minusvalenza permette di generare un credito. Questa opzione non si applica nel caso dei redditi di capitale, ovvero quelli costituiti per esempio da fondi comuni di investimento o ETF.  Questo credito fiscale può essere recuperato dalle plusvalenze che si verificano o nei successivi quattro anni o nello stesso anno.

Come si calcola la tassazione della plusvalenza sui titoli di Stato?

Innanzitutto, va premesso che l’aliquota sul Capital Gain, a patire dal 1° luglio 2014, è passata dal 20% al 26%. Questa aliquota è applicata a ogni operazione, eventualmente secondo una media dei prezzi delle singole operazioni di acquisto nel caso di più compravendite nell’arco di un solo giorno.

A questa situazione esistono però delle eccezioni. Se da una parte infatti l’aliquota del 26% è applicata a ETF, fondi comuni e dividenti delle azioni, dall’altra fanno eccezioni i titoli di Stato. Sui titoli di Stato sussiste infatti una aliquota pari al 12,5%. Rientrano in questa eccezione non solo i titoli Stato più comuni (quindi su BTp, BoT, CCT e CTZ), ma anche i titoli emessi da altri enti pubblici (comuni, province, regioni, eccetera) e le obbligazioni emesse dagli organismi internazionali e i bond emessi dagli Stati Esteri appartenenti alla cosiddetta “white list” (di cui fanno parte ben 120 nazioni). Si tratta dei Paesi con cui è garantito un adeguato scambio di informazioni ai fini fiscali (ma non solo) con il nostro Paese, così come stabilito dal Decreto del Ministro delle Finanze del 9 agosto 2016.